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06.04.2023 Attualità Tutti Svizzera «Ogni giorno ero felice di allenarmi»

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Il nostro ambasciatore Marco Wölfli è nato e cresciuto a Soletta. Ha scoperto la sua passione per il calcio quando da ragazzino accompagnava spesso suo padre al campo.

Ripercorrendo i suoi anni di attività, può vantare una carriera da professionista di successo. Uno dei momenti salienti risale alla stagione 2018, quando giocava nel BSC YB e il club ha vinto il campionato dopo 32 anni. Grazie a questa vittoria, a 36 anni ha debuttato nella Champions League in qualità di calciatore svizzero più anziano. Nell’intervista, l’ex portiere della nazionale svizzera (11 presenze) racconta come è stato scoperto e incentivato il suo talento e cosa vuole insegnare ai suoi figli a tal proposito.

Marco, quando hai iniziato a giocare a calcio?

Mia madre mi ha regalato le mie prime scarpette da calcio a quattro anni. Però ho cominciato a giocare in una squadra quando ne avevo sei.

Sei stato in porta fin dall’inizio?

Mi hanno messo in porta a sei o sette anni perché mancava il portiere. Fino a 14 anni, però, ho giocato spesso sia in porta sia in campo, facendo un tempo in un ruolo e un tempo nell’altro. Per gli allenatori era un po’ un’arma segreta (ride), dato che potevo giocare anche fuori.

Hai provato anche altri sport da bambino?

Ho fatto volentieri atletica leggera. In realtà mi piacevano anche tutti gli sport con la palla, per quanto il calcio rimanesse comunque la mia passione. Non ero tra quelli che vogliono a tutti i costi diventare professionisti. Mi piaceva fare sport e il calcio era quello che mi divertiva di più.

Chi ha scoperto il tuo talento? Quando è successo?

Ai tempi delle giovanili ho giocato nel FC Fulgor Grenchen fino agli Allievi C. A 15 anni sono stato invitato a un allenamento selettivo del Soletta. Poi ho giocato per un anno nell’U15 di FC Solothurn e sono entrato nella selezione giovanile della nazionale svizzera. A quel punto sono stato invitato per un allenamento selettivo di BSC Young Boys e alla fine sono passato nella loro squadra U17, dove mi ha allenato il leggendario Wale Eich.

A quei tempi mettevo il calcio al primo posto e ogni minuto libero lo passavo a giocare a pallone sul prato. Farlo per divertimento è stato sicuramente un vantaggio. Oltre al talento e alla fiducia, un portiere ha bisogno di una certa aggressività, ottimi riflessi, tecnica e il coraggio di non arrendersi. Per me, la cosa più importante era però divertirmi.

Sei stato tu a renderti conto di avere davvero del talento?

No, non ci pensavo affatto. A 15 anni ho cominciato l’allenamento avanzato. Ho fatto di tutto per il calcio, anche durante gli allenamenti facevo di più e mi allenavo più a lungo. Però per me era del tutto normale, perché ero contento di farlo. Avevo una sana autostima e sono sempre rimasto con i piedi per terra. Questo pragmatismo l’ho imparato dai miei genitori, è sempre stato un aspetto importante e lo è ancora oggi. Con la promozione del talento ho imparato a lavorare su me stesso e perfezionarmi. Non ho mai rinunciato al piacere di giocare a calcio. Ogni giorno ero felice di allenarmi. Essere diventato un professionista è qualcosa che è venuto da sé. Ma avevo anche una vita oltre al calcio, senza dubbio!

Come ti hanno sostenuto i tuoi genitori?

I miei genitori ci sono sempre stati per me, mi facevano spesso da taxi. Nelle decisioni importanti mi hanno sostenuto senza intromettersi. Mio padre veniva alle contrattazioni ma non si lasciava coinvolgere. Credo che abbiano trovato la giusta misura. I bambini devono sviluppare e affermare sé stessi, perciò è un bene che i genitori non interferiscano troppo.

Hai dei modelli a cui hai fatto riferimento o che ti hanno ispirato?

Oliver Kahn e Fabien Barthez. Per me il portiere perfetto dovrebbe avere la tenacia e la mentalità del vincitore di Oliver Kahn e anche la calma e la forza calcistica di Fabien Barthez.

Hai puntato tutto sul calcio o hai anche imparato un mestiere o studiato?

Ho iniziato un apprendistato come disegnatore di ingegneria civile. L’architettura era la mia seconda passione già a quei tempi. Tuttavia, quando a 17 anni ho ottenuto il primo contratto da professionista con BSC YB, ho dovuto fare una scelta. Avevo fatto troppe assenze a scuola e all’epoca non c’erano le stesse possibilità di oggi. Perciò ho dovuto interrompere i quattro anni di apprendistato dopo due anni e mezzo. I miei genitori hanno appoggiato la mia decisione, sono davvero grato per questo. Anche l’azienda formatrice mi ha sostenuto tanto e si è dimostrata comprensiva. Il mio capo di allora rimane ancora oggi una persona di fiducia e siamo in contatto.

Oggi sei tornato a lavorare nel settore immobiliare. Quando e come ti sei preparato alla fine della tua carriera?

Ho cominciato a gestire personalmente i miei immobili già durante la carriera. Ho maturato esperienza con le amministrazioni, come direttore dei lavori e nella collaborazione con notai e banche. Prima dell’allenamento, che cominciava alle 8.30, mi capitava spesso di passare a dare un’occhiata in cantiere. E mentre altri giocavano ai videogiochi, io correggevo le piantine o mi occupavo di questioni amministrative. Dato che conosco molte persone, avevo sempre qualcuno a cui chiedere quando rimanevo indietro con qualcosa. Così ho imparato tutto il necessario da autodidatta. È come il calcio, mi interessa e mi diverto a farlo. Circa un anno e mezzo prima di ritirarmi ho avuto uno scambio con i responsabili di Adlatus e ci siamo presto resi conto di essere sulla stessa lunghezza d’onda. Ho avuto modo di inserirmi nell’azienda e ora mi occupo delle vendite e della commercializzazione. È un’azienda piccola e la responsabilità è grande. Come nel calcio. Sono grato di avere questa possibilità. Il lavoro è interessante, vario e creativo. In più, come dicevo, l’architettura è sempre stata la mia seconda passione.

Per avere successo basta il talento? Cos’altro serve, in base alla tua esperienza?

Avere molto talento serve certamente. Oggi è tutto più incanalato, ci sono vari test per diventare professionista. Ma il talento o il lavoro sodo, da soli, non bastano. Serve un buon mix di entrambi. È importante anche lavorare sia sui punti forti che su quelli deboli, avere fiducia in sé stessi e saper gestire la pressione. Naturalmente bisogna allenarsi volentieri e avere un pizzico di fortuna. In fondo, non esiste una strada giusta, ogni persona deve trovare la propria e percorrerla.

Hai già scoperto qualche talento nei tuoi figli? Come lo promuovi?

In questo caso cerco di fare come hanno fatto i miei genitori: voglio essere presente e di sostegno per entrambi i miei figli. Dipende tutto dalle loro passioni. Per ora devono sperimentare per capire cosa fanno volentieri. Il più grande (10 anni) ha iniziato a giocare a calcio a 6 anni, ma ha pensato di poterci riprovare in un secondo momento. Ora gioca a unihockey e suona il pianoforte. Il piccolo (8 anni) fa judo. Credo sia un bene che abbiano vari interessi. L’importante è che facciano le cose con piacere.

 

Responsabile del contenuto:

Cornelia Krämer

Come responsabile delle comunicazioni, lavoro ogni giorno per garantire che i bambini possano essere bambini, in qualsiasi parte del mondo crescano.

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